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dc.contributor.authorAnsaloni, Giuditta Margherita Maria
dc.date.accessioned2021-08-17T12:56:58Z
dc.date.available2021-08-17T12:56:58Z
dc.date.issued2020-12
dc.identifier.urihttps://unire.unige.it/handle/123456789/3768
dc.description.abstractNegli ultimi anni ho più volte pen¬sato di avere due passioni, la nautica e l’arte, che non avessero niente a che fare l’una con l’altra. Ciò ha generato in me non pochi dubbi relativamente alla scelta del percorso più corretto da intraprende-re. Oggi raggiungo il traguardo della mia formazione universitaria con la consape¬volezza che la mia convinzione originaria fosse infondata e che anzi nautica e arte sono due universi solo apparentemente lontani, e la trattazione che segue in queste pagine vuole esserne la dimostra¬zione, attraverso una serie di riflessioni personali e fatti storici. Arte e architettura, intesa qui come un macro contenitore entro cui è possibile inscrivere anche la branca della progettazione nautica, sono stati binomi inscindibili in tutte le epoche. Per secoli nessuno ha mai pensato che fosse possibi¬le separare questi concetti, tanto natu¬rale appariva ai più un edificio che fosse decorato con rilievi, pitture, stucchi, sta¬tue, arredi fissi lignei, bronzei, marmorei, e tanto più che contenesse quadri e altre opere d’arte, e fosse magari affacciato su un giardino ricco di fontane e sculture. Utilitas e venustas vanno in coppia fino al momento in cui – ed è l’inizio di un rapporto che si è consumato – si sente la necessità di riunificarli con una legge, nello specifico la n°717 del 1949, meglio nota agli esperti del settore come “legge del 2 per cento”. Segno che da qualche tempo non nascono più naturalmente edi¬fici e piazze abbelliti con opere d’arte. Ovviamente non basta, come sempre ac¬cade, una legge per far tornare in scena comportamenti virtuosi che si sono sma¬rriti a causa dell’inesorabile cambiamen¬to dei tempi: l’inserimento di un oggetto artistico all’interno del progetto, infatti, modalità citata dalla legge stessa come quella da seguire, è un sistema che poco ha a che vedere con le complesse intera¬zioni culturali proprie di una collaborazio¬ne tra professioni e visioni estetiche di¬verse. Accadeva così che dopo il progetto architettonico, se non addirittura dopo la realizzazione, venisse incaricato un artis¬ta di abbellire l’opera. Se non bastavano le somme rimaste a disposizione, si com¬prava qualche quadro da appendere nelle stanze più importanti. Questo modo di procedere era destinato a lasciare segni di poco prestigio. Oggi, per esempio, ne¬lle città ricompaiono le statue. Si tornano a seguire gli antichi principi di Vasari. Per coagulare in un luogo il senso di un’iden¬tità non basta tuttavia una scultura, non basta cioè decidere di collocare un sim¬bolo al centro di uno spazio, se il simbolo non è condiviso. Molti sono i limiti e le differenze che ostacolano l’arte con¬temporanea, intesa non come appendice successiva e secondaria di architettura ed urbanistica, ma come loro stretta integra¬zione. Un esempio per tutte: il graffitismo e i murales sono rabbiosamente osteggiati nella città storica, dimenticando esperien¬ze ormai entrate nella storia come quella di Keith Haring a Pisa: correva l’anno 1989, più di trent’anni fa, nel centro storico di una delle più monumentali città d’Italia; e non si avrebbe il coraggio oggi di ripetere esperienze come quella in altri luoghi. Non va dimenticato che anche l’architettura e l’arte contemporanea possono essere beni culturali. Senza attendere che la storia si accumuli sopra di loro, esse possono essere da subito beni culturali se esprimono at¬tese, se pacificano conflitti, se producono pensiero, insomma se sono il frutto sapien¬te di un progetto. Alla base dell’immobilismo che ha caratterizzato negli ultimi decenni buona parte del mondo della nautica c’è inoltre il fatto che, come ricorda Barthes, gli yacht sono da sempre paradigmatici angoli di fo-colare, caverne adorabili, e la soddisfazio¬ne di esservi rinchiusi si esplicita attraverso gli oblò, metafora eccellente dell’osser¬vazione di un infinito esterno per antono¬masia quale l’azzurro del cielo e del mare, attraverso un occhio dotato di corazza. Oltre questo tratto specifico de¬ll’oggetto “barca”, è necessario ricordare che anche l’architettura ha riscontrato una vera e propria crisi di valori. Il gran¬de maestro Vittorio Gregotti, mancato lo scorso marzo, il quale nella sua lunga vita ha avuto la fortuna e l’onore di conoscere personalmente i grandi maestri dell’ar¬chitettura internazionale come Gropius, Van de Velde, Le Corbusier, Van der Rohe; quando qualcuno gli chiedeva cosa fosse per lui l’architettura, rispondeva dicendo che architettura significa costruire poe¬ticamente; “una definizione” – sosteneva – “degli antichi greci ma che io trovo valida ancora adesso”. Secondo questa definizio¬ne, risulta ancora più evidente la crisi in cui da ormai anni versa il settore: alla fine degli anni Sessanta il dibattito attorno al Progetto Moderno è entrato in crisi, e con esso la nozione di Modernità in generale. Da quel momento la tecnica si è fatta pre¬dominante. Più che di tecnica, sarebbe più corretto parlare di tecno-scienza, poiché è difficile distinguere l’una dall’altra. Il pro¬blema credo sia nato nel momento in cui si è perso di vista il fatto che la tecnica, pur essendo uno straordinario strumento che ci offre incredibili possibilità, non ha fini. È senza fini in sé, e l’assenza di fini ha finito per prevalere anche in ambito progettua¬le. Negli ultimi quarant’anni un grande filone dell’architettura si è concentrato nella realizzazione di qualcosa che fosse il simbolo dell’idea di tecnica come forza preminente della modernità. Per dirla in altre parole l’architettura deve essere in grado di pensare non solamente al Reale, ma anche al Possibile. Questo significa costruire poeticamente ed è proprio questo che l’architettura, e più nello specifico la nautica, è riuscita a fare con molta fatica negli ultimi anni. La scelta di portare fra i vari casi studio anche quello dei Cantieri Nava¬li Sanlorenzo è doveroso per l’evidente apporto dato al tema su cui si incentra la mia trattazione. Apporto del quale ero a conoscenza già da alcuni anni a fronte di un mio interesse personale e che, grazie all’esperienza di stage che mi ha vista coinvolta negli ultimi mesi, è diventato anche parte del mio vissuto quotidiano. Le dilatazioni spaziali che primo fra tutti Sanlorenzo è riuscito ad introdurre in un immaginario immobilizzato come era e per certi versi è ancora quello della nauti¬ca, grazie all’impiego di linguaggi non omologati che spaziano fra design e arte, stupiscono e ribaltano la percezione del limite che sempre si ha a bordo di questi gioielli semoventi. È importante ricordare però, in questa epoca storica così fiorente e ricca di stimoli per il design nautico, che il concetto di arte a bordo e il concetto di un buon progetto di yacht design non sono sovrapponibili bensì solo affiancabili: a tal riguardo l’arte non può e non deve diven¬tare uno standard a bordo, perché se ciò accadesse si svuoterebbe del suo intrinseco significato. Deve dunque essere selezionata qualitativamente, e non quantitativamen¬te come purtroppo spesso accade. Deve essere trattata alla pari di un materiale di costruzione, perché in effetti lo può diventare: il materiale con cui si costruis¬ce l’identità e l’anima di un progetto. La giornalista e critica d’arte Linda Yablonsky parla di tre tipologie di potere nel mondo dell’arte: la prima proveniente dai soldi, la seconda dalla fama. La terza è invece un potere intrinseco dell’arte, cioè quello di provocare emozioni. Il mio augurio è che il solo potere dell’arte, se di questo si può parlare, continui ad essere unicamente quello di provocare emozioni e dunque, se “applicata” al mondo del progetto archite¬ttonico e più nello specifico nautico, quello di trasformare uno spazio in luogo. Sono infine pienamente consape¬vole che una tesi di ricerca sia qualcosa di insolito a coronamento di un percorso di studi interamente svolto in una Facoltà del Design. Questa scelta è da un lato dettata dalla curiosità, caratteristica che mi porta spesso a fare ricerca su temi che mi appas-sionino particolarmente, e dall’altro da un motivo ancora più importante, ovvero il tentativo di comunicare a quanti avranno tempo e voglia da dedicare al mio operato, l’importanza della ricerca in ambito pro¬gettuale. Credo importante a tal riguardo menzionare la specificità delle scuole di ar¬chitettura e di design italiane, che recluta¬no i propri insegnati sulla “sulla base della loro produzione culturale (articoli, libri) tanto quanto su quella delle loro operazio¬ni architettoniche”. Inoltre in Italia, tra gli anni cinquanta e settanta, si riscontra una vera e propria esplosone nel campo della produzione editoriale di architettura, riguardante tanto i libri quanto le riviste. È proprio in Italia, più che in ogni altro luogo, che si è mantenuto poi uno stretto legame, un dialogo, fra architettura, storia e teoria. Pur discontinua, tale presenza si lascia riscontrare anche in momenti difficili (si pensi ad esempio ad Edoardo Persico e a Giuseppe Pagano durante il fascismo). Non è dunque una novità che la figura del pro¬gettista possa oramai concepire se stesso in modo quasi del tutto svincolato dalla pro¬duzione progettuale, senza con questo ces¬sare di considerarsi progettista a tutti gli effetti: costituiscono un esempio lampante di questa affermazione Giovanni Batista Piranesi e Andrea Palladio, in quanto en¬trambi architetti e allo stesso tempo autori di volumi che costituiscono un paradigma di un’intellettualità architettonica. Inoltre, l’analisi della storia, in campo progettuale come del resto anche in campo politi¬co-ideologico, oltre che per fini conoscitivi, può avere, come sostiene Manfredo Tafuri, un’attitudine storico-critica “operativa”3, un’analisi dell’architettura (o delle arti in generale) che abbia come suo obiettivo non un astratto rilevamento, bensì la progetta¬zione di un preciso indirizzo poetico, anti¬cipato nelle sue strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente finalizzate e deformate. Al punto di incon¬tro fra storia e progettazione, è importante ricordare, la critica operativa progetta la storia passata proiettandola verso il futuro. Tuttavia, le vicende occorse dopo i primi anni Settanta nella società mondiale e italiana nello specifico, hanno portato a evoluzioni del tutto distanti da quelle prefigurate in precedenza. Prima fra tutti è forse la crisi dell’architettura moder¬na, da addebitare probabilmente ad una troppo rigida e dogmatica interpretazione del razionalismo del Movimento Moderno che, saldandosi all’istanza tecnicista del processo di industrializzazione edilizia in atto, ha finito per produrre il declassamen¬to dell’architettura da Arte ad un insie¬me coerente e strumentale di operazioni tecniche. I nuovi progetti appaiono incerti nella loro caratterizzazione tipologica; manca loro quella dimensione simbolica che la cultura architettonica di questi anni ha saputo restituire al progetto. Essendo venuto meno ogni senso della tradizione le nuove navi denunciano una perdita di memoria da cui deriva l’attuale difficoltà di prefigurazione4. Gli allestimenti interni inseguono le meraviglie tecnologiche e decorative magari riprendendo dal mondo post-moderno i vecchi stili, per stupire un pubblico dai gusti incerti, abituato a tanto di tutto. Riaffiora nei progettisti l’orgoglio della tabula rasa, l’idea di poter inventare forme assolutamente nuove, rese possibili dallo sviluppo tecnologico indiscutibilmen¬te avanzato, e dalla disponibilità di sofis-ticate tecniche d’automazione che assicu¬rano la conformità alle norme tecniche, l’imprimatur fornito dai controlli di sicu¬rezza simulati con i modelli Cad. Questo è l’esito inevitabile del funzionalismo, che presuppone si debba partire dal conoscere la nave, dai requisiti alle normative pres¬tazionali, e solo dopo si possa realizzare la nave giusta, appropriata. A partire da quel momento l’attitu¬dine, a essere “dentro la società e contro di essa nello stesso tempo” è declinata vistosamente, fino a scomparire del tutto; una sparizione cui ha corrisposto un altret¬tanto lunga eclissi della figura dell’archite¬tto come intellettuale. Le ragioni di questa duplice sparizione (o forse sarebbe meglio dire “oscuramento”) solo apparentemente sono riconducibili in toto alle condizioni politiche e sociali verificatesi in Italia e in buona parte del mondo dagli anni Ottanta in avanti. In realtà, proprio quelle condi¬zioni costituiscono il compimento e la con¬ferma di quanto i migliori intellettuali dei decenni precedenti avevano lucidamente preconizzato. Non deve quindi stupire che, con il crescente imporsi di tali condizioni in tutte le società occidentalizzate, siano tor¬nate a emergere (specialmente in Italia), a partire dal principio del nuovo millennio, riflessioni filosofiche e teoriche incentrate su temi su cui la cultura si era interrogata nei decenni precedenti. È alla luce di ques¬ta posizione che è forse possibile ripensare anche il ruolo del progettista intellettuale oggi. La lezione che dunque possiamo tratte dal lavoro di grandi maestri come Tafuri, Rossi e Archizoom va al di là di facili repechage e indica che nella teoria vi è qualcosa di irriducibile alla pratica dell’architettura come professione. L’auto-nomia della teoria in questo senso non vale soltanto come un’indicazione metodologi¬ca ma assume un valore paradossalmente operativo. All’interno del contesto del capitalismo quale unico orizzonte di realtà attualmente possibile, la teoria assume la fondamentale funzione di disinnescare la coazione ad agire e a svilupparsi in concre¬to, che è propria di questo, fornendo una prospettiva diversa, quantomeno pensa¬bile. Da questo punto di vista il progetto inteso in senso teorico può rappresentare una forma di conoscenza, un modo di comprendere le cose in cui è in gioco la possibilità di pensare, criticare, e persino di cambiare lo spazio in cui viviamo.it_IT
dc.language.isoitit_IT
dc.titleNavigare a regola d'arteit_IT
dc.typeThesisit_IT
unire.supervisorRatti, Andrea
unire.assistantSupervisorCorradi, Massimo
dc.publisher.nameUniversità degli Studi di Genova


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