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dc.contributor.authorPoggio, Francesca
dc.contributor.authorRomano, Carola
dc.date.accessioned2020-08-04T17:58:18Z
dc.date.available2020-08-04T17:58:18Z
dc.date.issued2020-04
dc.identifier.urihttps://unire.unige.it/handle/123456789/3120
dc.description.abstractPartendo dall’analisi del fenomeno informale e del suo rapporto con la formalità, la tesi concentra la sua attenzione su uno dei suoi tanti esempi, ossia quello del campo profughi, realtà ormai altamente radicata e diffusa a livello globale e alquanto complessa dal punto di vista urbano. Il capitolo due si pone, quindi, l’obiettivo di darne una definizione completa, che vada oltre quella di strumento umanitario utilizzato per gestire i flussi dei rifugiati di tutto il mondo, analizzando le forze sottese che, da una parte, spingono a definirlo come sistemazione temporanea, votata all’efficienza gestionale dell’emergenza, e, dall’altra, lo proclamano a manufatto urbano, prodotto della e dalla eccedenza contemporanea. I casi studio analizzati hanno fatto emergere, da una parte, le problematicità della progettazione umanitaria del campo, inadeguata a fronteggiare situazioni di crisi protratte (purtroppo sempre più frequenti) e le ripercussioni psicologiche dei rifugiati che, immersi in questo limbo temporalmente dilatato e spazialmente sempre più ristretto, vivono in una condizione di attesa, di assenza, che fa perdere loro le coordinate e la consapevolezza di avere un ruolo nel mondo, dall’altra, il riscatto che gli stessi provano a darsi nel “qui ed ora” del campo, imprimendo nel suo spazio freddo e asettico, segni della loro inequivocabile presenza: ecco, allora, che, perdendo la certezza della sua durata temporale, lo spazio comincia a oscillare, tanto a livello fisico, quanto a livello mentale e immaginifico, tra la natura temporanea di campo e un’ambizione più stabile di città. La scelta di focalizzare l’attenzione sul campo palestinese di Al Arroub è dovuto al particolare, quanto mai problematico contesto politico che dilania il West Bank dall’occupazione israeliana del 1967. La situazione estremamente critica e, tuttora, irrisolta, fa, infatti, del campo, l’emblema del suo fallimento come dispositivo temporaneo di aiuto, del suo inesorabile radicamento nel panorama urbano del territorio e dell’esigenza di un approccio progettuale che, tenendo conto della sua complessità e delle dinamiche socio-spaziali instaurate informalmente nel tempo, possa colmare le lacune di una progettazione umanitaria per lo più inadeguata, rivendicando un proprio “diritto alla città”. Il lavoro di tesi, pertanto, è orientato ad riattivare quelle occasioni identitarie (sociali, culturali, economiche) proprie di una città, in modo tale da rendere il rifugiato di nuovo un cittadino e un nuovo cittadino. L’obiettivo non è quello di imporre un’ideale urbano, ma porsi nell’interstizio, “IN BEETWEEN”, ossia partire dalle esperienze spaziali e dalle potenzialità ri-creative e resilienti degli abitanti per offrire un indirizzo progettuale che possa controllare la spontaneità più intransigente, ma accoglierne lo spirito demiurgico più vitaleit_IT
dc.language.isoitit_IT
dc.titleRiabitare il campo. Strategie per il trasferimento dei valori sociali urbani nel tessuto iperdensificato dei campi profughi, a partire dalla cellula privata dell’abitazioneit_IT
dc.typeThesisit_IT
unire.supervisorGiberti, Massimiliano
dc.publisher.nameUniversità degli Studi di Genova


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